Frege: filosofia del linguaggio

Frege, Gottlob Frege. Un nome, un’entità leggendaria in filosofia e in logica. Egli nasce nel 1848 e muore nel 1925. Sebbene si occupò, oltre alla filosofia del linguaggio, anche di matematica (tentò di ridurre la matematica alla logica, proponendo una teoria degli insiemi ingenua poi rivelatasi inconsistente), la sua influenza sui filosofi del primo e secondo Novecento è davvero notevole ed è forse la parte più interessante del suo lavoro.
Le opere concernenti il linguaggio sono due: l’Ideografia e Senso e riferimento.
Soffermiamoci sulla prima delle due: “ideografia” vuol dire scrittura per concetti e ciò che, in effetti, Frege cerca di mostrare in quest’opera è che il linguaggio si possa ridurre ad un calcolo formale, ossia logico. Egli, quindi, non cerca di creare una nuova lingua, piuttosto cerca di fornire una risposta alla domanda: “quali sono i fondamenti del linguaggio?”. Questi fondamenti, per Frege, sono analizzabili attraverso un linguaggio formale (privo di contenuti) tale che proprio in virtù della sua formalità possa condurre a conoscenze fondazionali, ossia universali intorno alla possibilità stessa di ogni linguaggio.
Frege riduce i concetti, la predicazione ed i connettivi fra enunciati ad una funzione. Una funzione satura un argomento. Questo significa che nel dire:

(i) Aristotele è barbuto.

Stiamo dicendo, equivalentemente, che esiste un x, tale che x è Aristotele e x è barbuto e ciò è vero. Questo significa che esiste una funzione (l’essere barbuto) che mappa x (cioè Aristotele) da un dominio a cui x appartiene ad un codominio (i cui soli elementi sono il vero o il falso. Possiamo quindi derivare da (i) l’equivalente formalizzata (ii): siano Ex = esiste un x, A = Aristotele e B = essere barbuto, allora avremo che la traduzione di (i) sarà la seguente:

(ii) Ex(Ax & Bx)

E da (ii) possiamo derivare la mappa verso il codominio, ovvero la funzione che valuta il valore di verità di (i)-(ii). Tale mappa, che indichiamo con V, ci dirà che (ii) è vera, indicando la verità di un enunciato con il numero 1:

(iii) V(Ex(Ax & Bx)) = 1

Il maggior risultato teorico dell’Ideografia è stato, perciò, quello di mostrare che il linguaggio possa essere analizzato dal punto di vista filosofico. Mentre, però, in quest’opera Frege si occupa della struttura sintattica del linguaggio, egli non trascura anche la componente semantica di esso. In particolare la semantica formale si occupa di come sia possibile il significato di un enunciato (o di un nome).
Nel saggio su senso e riferimento, Frege propone un esempio che possiamo riportare liberamente come una tripla di enunciati (a)-(b)-(c):

(a) La stella del mattino è Fosforo
(b) La stella della sera è Espero

In (a) e (b) possiamo distinguere due componenti semantiche fondamentali, ossia non ulteriormente scomponibili: il senso ed il riferimento. Il senso è il modo di dire qualcosa. Il riferimento è l’oggetto a che il senso denota. Il senso di (a) sarà “stella del mattino” mentre il suo riferimento sarà Fosforo. Allo stesso modo, per (b) il senso sarà “stella della sera” ed il suo riferimento sarà Espero. Notiamo, tuttavia che è vero, sul piano ontologico, ossia sul piano dell’oggetto riferito, quanto segue:

(c) Fosforo = Venere = Espero

La stella del mattino e la stella della sera sono il medesimo oggetto: il pianeta Venere, ora enunciato come stella del mattino, ora come stella della sera (diremmo che la denotazione è la stessa, ma la sua connotazione fra (a) e (b) muta). Poiché il riferimento da solo, che è uno e medesimo, non basterebbe a rendere ragione della verità di (a) in certi contesti e della falsità di (b) in questi medesimi contesti e viceversa, allora bisogna supporre l’esistenza del senso, cioè delle modalità semantiche con cui si assegna un termine ad un oggetto. Se al mattino chiamassi la stella del mattino col nome di Espero, per esempio, starei pronunciando una proposizione falsa: il senso non si riferirebbe a Espero, ma a Fosforo.
Intorno alla falsità degli enunciati, Frege riprende sostanzialmente la tesi platonica secondo cui un enunciato falso, ma di senso compiuto, non si riferisce al non essere assoluto (del puro non essere, infatti, non si potrebbe riferire alcunché se non che non è). Piuttosto, un enunciato falso è un pensiero tale alla sua contraddittoria si applica il segno della negazione. La negazione della contraddittoria (che è vera, dato che stiamo analizzando l’enunciato falso) farà riferimento all’enunciato vero affermando qualcosa di diverso di esso. In un certo qual modo, è come se ad un enunciato vero si volesse associare nel codominio la costante 0, ossia il valore falso. Equivalentemente: ad un enunciato falso, si vuole associare la costante 1, il valore vero. La soluzione di Frege, quindi, per non cadere nel paradosso, sta nell’individuare nella negazione non il riferimento al non essere, ma alla contraddittoria di un proposizione, che è a sua volta una proposizione (una proposizione che è, dunque si resta nell’ambito dell’essere al di qua del paradossale).
La filosofia di Frege, come si diceva, avrà grande influenza sui pensatori successivi, da Russell a Strawson, da Quine a Kripke e, ancora oggi, i suoi scritti sono sì un classico della filosofia novecentesca, ma anche la miglior introduzione alla filosofia del linguaggio tout court.

Cosa si può dire intorno a qualcosa?


Ogni proposizione contiene almeno un soggetto ed almeno un predicato. La relazione di attribuzione del predicato al soggetto può essere vera o falsa, se la proposizione è ben formata. Quindi ogni proposizione implica una predicazione. Al di là della verità o falsità dell’attribuzione, è necessario innanzitutto chiedersi: che cosa si può dire? E poiché un enunciato, per essere veritiero, ha bisogno di un riferimento (ossia un oggetto di cui si parla), allora la questione che più dovrebbe interessare è la seguente: che cosa si può dire intorno a qualcosa? Ci si interroga, cioè, sulla forma logica delle predicazioni.
La risposta più antica e ancora oggi più completa alla questione risale alla speculazione aristotelica. Aristotele era un filosofo particolarmente attento al linguaggio e da esso egli era solito far cominciare le sue analisi. Non solo egli fornirà alla filosofia un linguaggio tecnico più rigoroso, ma proporrà anche delle riflessioni di filosofia del linguaggio determinando le modalità in cui il linguaggio riesce ad agganciare il mondo.
Al di là di tali questioni teoretiche, Aristotele nei Topici, Libro I, 2-3 (una delle opere poi confluite nell’Organon, gli scritti di logica e filosofia del linguaggio) individua ben quattro modi possibili ed esaustivi coi quali si può dire qualcosa di qualcos’altro. Nell’esaminare queste quattro modalità, egli individua dunque anche le possibilità, ovvero le forme logiche, che ci permettono di parlare intorno a qualcosa.
I modi per mezzo di cui si dice qualcosa intorno a qualcos’altro sono i seguenti: definizione, genere, predicazione propria, predicazione accidentale. Cominciamo dalle più semplici, procedendo quindi in senso contrario rispetto alla presentazione.

1) La predicazione accidentale è un modo di predicare qualcosa di qualcos’altro. Nella predicazione possiamo distinguere un soggetto ed un predicato. Se soggetto = S e predicato = P, allora P si predica di S (cioè P è predicato di S), mentre S partecipa di P. Se P è predicato accidentalmente di S, allora P poteva o poteva non appartenere ad S. Esempio: Socrate è ateniese. Socrate è il soggetto, il predicato è “essere ateniese”. Chiaramente a Socrate è capitato di essere ateniese, poteva anche nascere a Sparta se sua madre si fosse trovata lì il giorno in cui Socrate è venuto al mondo. Un altro esempio: Socrate parla magnificamente. Anche questa è una predicazione accidentale. Socrate poteva parlare usando termini volgari oppure avere una cattiva dialettica. In breve: un predicato appartiene accidentalmente ad un soggetto se e solo se non vi appartiene necessariamente. Un predicato appartiene necessariamente ad un soggetto se e solo se quando questo soggetto viene privato di quel predicato, allora il soggetto cessa di essere tale o diventa qualcos’altro.

2) La predicazione propria è un altro modo di dire qualcosa di qualcos’altro. Intuitivamente, quando diciamo “l’uomo è grammatico” stiamo affermando l’appartenenza di un predicato ad un unico soggetto in grado di partecipare a quel predicato: non è possibile che una pianta sia grammatica, né che un animale diverso dall’uomo sia grammatico. L’essere grammatico, tuttavia, non appartiene all’uomo in modo definitorio: possono esserci uomini che non sono grammatici. Fra l’insieme dei predicati accidentali e quello dei predicati propri possono esserci delle intersezioni: dire di Socrate che è seduto mentre tutti gli altri partecipanti ad un convivio sono alzati significa predicare in modo proprio un attributo appartenente a Socrate. Ciò non sarà ovviamente sempre vero, qualora gli altri conviviali si sedessero, allora il predicato “essere seduto” apparterrebbe di nuovo solo come accidente a Socrate.

3) La predicazione secondo il genere si ottiene, per esempio, quando si dice che l’uomo è un animale. In tal caso si sta predicando il genere, cioè l’animalità, di un soggetto, cioè l’uomo. Se l’essere animale appartiene come genere all’uomo, allora la negazione dell’animale non è possibile senza negare anche l’uomo; non è possibile che qualcosa sia un uomo e non sia animale e se qualcosa non è un animale allora sicuramente non sarà un uomo. Il genere appartiene necessariamente al soggetto. Il genere non appartiene, però, in senso proprio al suo soggetto. Infatti, l’essere animale non appartiene esclusivamente all’uomo, ma anche a un rettile, ad un anfibio, ad un pesce e così via. Se sappiamo che S è un animale, da ciò non possiamo inferire che sia un uomo.

4) La predicazione definitoria è, infine, quella che racchiude entro di sé la predicazione secondo il genere e quella dell’attributo proprio. Una definizione individua quelle caratteristiche che appartengono necessariamente alla specie e sono sufficienti per distinguerla da ogni altra specie. Esempio: definizione dell’uomo è animale razionale. Dell’uomo si predica secondo il genere il primo predicato, ossia l’essere animale, e si predica come predicato proprio (ossia come differenza da ogni altra predicazione all’interno del genere) l’essere razionale. Un altro esempio: la sedia è un mobile (genere) con schienale (differenza propria). Se infatti qualcosa non è un mobile, allora non è una sedia. Se qualcosa è un mobile ma è privo di schienale, allora sarà uno sgabello o un comodino.

Questi sono i quattro predicabili, ossia i modi in cui è possibile dire qualcosa di qualcos’altro. Ognuno di questi predicabili ricade sotto una o più delle dieci categorie aristoteliche: sostanza, quantità, qualità, relazione, spazio, tempo, stare, avere, agire, patire. Se, infatti, si dicesse “Socrate è noioso, domani ci parlerà delle virtù” allora staremmo predicando in modo accidentale di una sostanza (Socrate) una qualità (l’essere noioso) e al contempo la predicazione rientrerà nella categoria del tempo (Socrate parlerà domani) e dell’agire (il parlare da parte di Socrate è un agire di Socrate) e del patire (la virtù è detta da Socrate, subisce un’azione).
Sebbene la maggior parte delle persone ritenga la filosofia una disciplina speculativa del tutto inconcludente, è indubbiamente un traguardo filosofico il poter ammettere che almeno una conclusione filosofica è nota: la teoria aristotelica dei predicabili. Chi la negasse, infatti, incorrerebbe o in contraddizione o nella condizione di non poter più predicare nulla, dunque di non poter proferir parola. Ciò rende vera la teoria dei predicabili. La dimostrazione di quest’ultimo enunciato la si lascia volentieri al lettore, con l’augurio di buon ragionamento!

Sulla morte di Willy Monteiro

La tragedia della morte di Willy solleva alcune questioni intorno alle quali sarebbe opportuno soffermarsi. Prima fra tutte: è un problema di educazione sociale? Secondariamente: se sì, quanto è stato determinante il contributo che ognuno di noi – nella sua assenza in qualità di membro attivo di una società che forse avrebbe dovuto essere più cooperativa – ha apportato? Infine: quanta colpa è da attribuirsi agli specifici individui a prescindere dal contesto del loro vissuto?
1. Al primo quesito possiamo rispondere che sì, l’educazione alla violenza è stata la causa prima che ha privato i colpevoli di ogni freno inibitorio in merito al trattamento da riservare ai proprio simili. Se, infatti, è condizione necessaria che ogni uomo si rispetti con l’altro e si curi del benessere altrui non in quanto abbia con questi un rapporto amicale o parentale ma semplicemente perché è uomo in quanto umano, allora è chiaro che la negazione di questa basilare forma di benessere sociale comporterà l’assenza di umanità. In assenza di un carattere fondamentale come l’umanità del singolo, non può esserci socialità del gruppo (inteso nella sua accezione più inclusiva).
2. La mancanza di correttivi, inoltre, siano essi punitivi o sotto forma di rinforzo positivo, ha contribuito all’escalation di violenza – violenza entro la quale gli omicidi vivevano ed agivano definendo sé stessi nelle loro azioni come “i forti” o “gli invincibili”. Se l’educazione alla violenza (vedi punto 1) è stata la condizione sufficiente che ha condotto al pestaggio di Willy, la mancanza di prevenzione verso forme di agire violento ne è stata la condizione necessaria. Il tessuto sociale nel quale gli omicidi sono cresciuti è connivente con le azioni degli stessi. La permissività – esperita e resa possibile a causa dell’assenza di correttivi sociali – favorisce la ripetizione di comportamenti anti-sociali e la ripetizione, costruendo l’illusione dell’impunità, può implicare un acuirsi delle azioni violente che da marachella divengono risse e da risse divengono pestaggi e da pestaggi divengono omicidi. (Ciò non è necessario che accada, ma è possibile che accada se si considererà il punto seguente).
3. Se le colpe della morte di Willy sono da attribuirsi in parte alla sfera sociale a cui i due omicidi appartenevano, è anche vero che in primis sono essi stessi i responsabili delle proprie azioni. Non è pertanto possibile un’analisi completa del caso in esame che non renda conto del comportamento, considerato sotto i termini e gli strumenti dell’etica prima che del diritto, dei due uomini. Seppur è vero che molte persone si ritrovano a dover vivere in ambienti sociali poco sani, è al contempo vero che non tutti coloro che vivono in tali ambienti sono né diventano omicidi. In questo caso, la scelta di uccidere sembra essere stata assunta con la leggerezza di chi non ha ben chiare le conseguenze delle proprie azioni. Se il condizionale “se uso violenza per 20 minuti con tanta veemenza contro un altro uomo, allora quest’ultimo potrebbe morire” non è parte della coscienza né della conoscenza del singolo, allora il singolo non sarà spronato ad agire altruisticamente né a prevenire comportamenti non altruistici. L’azione morale è intuita dalla sensibilità emotiva e rafforzata dai concetti che intorno ad essa ci si forma. Se gli omicidi avevano già perso qualunque sensibilità emotiva, allora non c’era presso costoro alcun concetto rispetto a ciò che stavano facendo. La loro condotta è stata (a) sia un agire per ignoranza (b) sia una scelta dell’ignoranza stessa. Se il punto (a) rende apparentemente più innocente il loro comportamento, il punto (b) afferma nuovamente la colpevolezza del singolo, con particolare enfasi sull’inadeguatezza della sua propria sfera intima e privata.

Distruggere statue è rivoluzionario

Fa fatica credere che distruggere le statue possa essere un’azione politica. Benché politico sia l’effetto che si vuole raggiungere. L’onda di proteste che sta scuotendo gli Stati Uniti d’America precipuamente e l’Europa secondariamente non è forse volta ad una parità sociale fra popolazioni di origine africana e popolazioni di origine caucasica? Nel dominio della società dei diritti universalmente riconosciuti l’obiettivo dei manifestanti è chiaramente accettabile, ma poiché esso è perseguito tramite canali non politici (ma, anzi, con fare tipicamente rivoluzionario) allora si può pensare che l’azione non ricada sotto l’estensione della definizione di azioni politiche. (Supponendo che per azione politica si intendano quelle azioni che hanno luogo secondo i tempi e le modalità previste da una Costituzione o da una qualsivoglia carta nazionale e/o internazionale).

Lasciando questo punto da parte, io mi chiederei piuttosto: è giusto o ingiusto distruggere le statue?

Una prima risposta è: non è né giusto né ingiusto, è paradigmatico.
Il messaggio rivoluzionario è da sempre veicolato da azioni forti, azioni che non hanno il dovere di essere diplomatiche né che hanno il dovere di essere violente. Ciò che è stato fatto in passato alle statue non giustifica però ciò che nel presente viene fatto (sarebbe un argomento induttivo e dunque fallace, perché ammette controesempi). La rivoluzione passa anche attraverso la distruzione delle statue di quei simboli che, seppur decontestualizzati, hanno nel paradigma rivoluzionario uno specifico significato che può essere (e dal punto di vista dei rivoluzionari deve essere) demonizzato. Lo storico dell’arte probabilmente si indignerà dinanzi alla distruzione del patrimonio storico-artistico e più generalmente culturale.
Si potrebbe obiettare che se i distruttori di statue fossero nel giusto, allora i barbari avrebbero dovuto distruggere a ragione le statue degli imperatori e degli dei romani. Così come i cristiani avrebbero dovuto distruggere il Colosseo, dove i fedeli venivano messi a morte a lottare contro le fiere, considerano l’Anfiteatro Flavio come l’esempio prototipale della tirannia pagana contro i cristiani.
Il paradigma cambia e cambia ciò che è giusto e ciò che è sbagliato nel paradigma. Nel paradigma artistico, distruggere statue è ingiusto. Nel paradigma rivoluzionario, distruggere statue che rappresentano i soprusi subiti dai rivoluzionari è giusto.

Il punto è: al di sopra di due paradigmi contrari, è possibile applicare universalmente il predicato “giusto/ingiusto” sull’azione di distruzione delle statue a prescindere dal paradigma?
Questa è una questione filosofica e pertanto richiede un’analisi più rigorosa e serrata. Sarebbe richiesta una teoria etica entro la quale lavorare ed anche una argomentazione logica che ci assicuri di non stare a cercare una risposta inesistente. In altre parole dobbiamo occuparci di due questioni:
1) Fra due paradigmi diversi con opinioni contrastanti su che cosa sia giusto fare, esiste un’idea di giusto che possa egualmente applicarsi a entrambi; potremmo dire: che possa applicarsi meta-paradigmaticamente? (Questione logica).
2) Qual è il principio etico minimale che dovrebbe sottendere alla nostra analisi? (Questione etica).

Rispondere alla prima questione potrebbe però essere inutile, dato che per rispondere alla seconda dovremmo immancabilmente scendere al livello di un paradigma etico. E all’interno del paradigma etico scelto sarebbe impossibile (o quanto meno logicamente scorretto) giungere ad una proposizione vera di tipo meta-paradigmatico. La questione filosofica sembra essere, perciò, al di là della solubilità.

Noi italiani

C’è un indubbio gusto di macabro in quella che pare essere la più alienante esperienza per la democrazia italiana dal ’46 in poi. Questa è una questione secondaria rispetto all’emergenza sanitaria, certo, ma non per questo meno degna di essere presa in considerazione. La questione è la seguente: quanto siamo disposti a scendere a compromessi?
Noi italiani, sempre stati inclini al singolarismo spettacolare. Come spettacolare è sempre stato il nostro rifiuto della regola — ragione di ciò sta nel fatto che abbiamo in momenti recenti della nostra Storia percepito il corpus delle regole come un insieme di imposizioni piuttosto che come un insieme di norme volte al mantenimento della promessa fatta indirettamente dall’esistenza stessa dello Stato: la sopravvivenza della società civile.
Noi italiani, sempre sul filo del rasoio. In bilico fra ciò che è giusto moralmente e ciò che è vietato dalla legge; forse quel 20% di cittadini che non rispetta le ordinanze pubbliche è caduto sull’altro lato. Sul lato cattivo. Lato che, forse, più che cattivo è solo generato ed alimentato da quella mancata cura da parte delle istituzioni.
Noi italiani, comunque sempre pronti a criticare gli altri italiani.

Allevamento di bufale

Bufala (1)
Bufale nella mangiatoia

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Una bufala riposa o per stanchezza o per noia vicino a degli escrementi

Bufala (3)
Bufala sporca di fanghiglia o escrementi

Bufala (4)
Vitello nel recinto

Bufala (5)
Bufala nel recinto

Allevamento di bufale presso un caseificio di Paestum. Non so se le modalità d’allevamento siano a norma, mi auguro di sì — ma anche se così fosse, la miseria in cui vivono questi animali è stata davvero un colpo al cuore per me.
Lo sguardo del vitello, relativamente giovane, sembra quello di un bambino o di un animale domestico.

Plastiche e mareggiate

Le foto che seguono sono un foto-reportage intorno all’inquinamento marittimo delle coste salernitane. Qui documento come, in seguito alle tempeste e alle mareggiate dei giorni scorsi, la spiaggia del centro città (la spiaggia di Santa Teresa) sia stata letteralmente invasa da rifiuti composti da materie plastiche e corde di vari colori (che presumo essere parti distaccatesi di reti usate dai pescatori).

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